A questo link l’intervista della giornalista Elisa Chiari di Famiglia Cristiana al Direttore del Master, prof. Albert Vannucci, in occasione dei 25 anni dell’inizio dell’inchiesta Mani Pulite.

Di seguito riportiamo il testo:

ALBERTO VANNUCCI: “LA MALAPIANTA C’È ANCORA, MA HA CAMBIATO SPECIE”

17/02/2017  Corruzione, com’era, com’è, come se ne esce. Intervista ad Alberto Vannucci che la studia da una vita: “E’ ancora sistemica, ma più raffinata. Non è solo nei grandi appalti, ma anche nel nostro quotidiano. Per contrastarla non basta un’indagine, serve il nostro impegno”.

Correva l’anno 1992, il 17 febbraio fanno 25 anni dal primo atto pubblico della complessa inchiesta cosiddetta Mani Pulite in cui la Procura della Repubblica di Milano scoperchiò la corruzione sistemica che coinvolse e infine travolse l’impropriamente detta “Prima Repubblica”. Va da sé che non ci sia nulla da celebrare, anche perché gli indicatori internazionali ripetono che alla presa di coscienza, iniziata un quarto di secolo fa con l’arresto di Mario Chiesa, non è seguita una manovra di contrasto e prevenzione adeguata a portare la corruzione italiana ai livelli di un’accettabile soglia di tolleranza.

La corruzione esiste ancora anche se probabilmente ha preso forme diverse, che anche come cittadini dovremmo saper riconoscere se non altro per attivare meccanismi di difesa. Abbiamo chiesto ad Alberto Vannucci, professore di Scienza Politica all’Università di Pisa, dal 2010 coordinatore del Master universitario in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, costruito con Libera e Avviso pubblico, di aiutarci a capire che cos’è la corruzione oggi, che danni fa, come la si riconosce nella vita quotidiana.

Prof. Vannucci, che cos’ha in comune la corruzione di oggi con quella dei tempi di Mani pulite?

«Come allora è sistemica: non solo è abnorme in quantità per un Paese democratico e sviluppato, ma non è il prodotto di un incontro occasionale tra chi desidera acquistare qualche favore e qualche funzionario infedele disposto a vendere la propria funzione. Funziona, invece, come se ci fosse un sistema di regole parallele e invisibili che i partecipanti al gioco sporco della corruzione conoscono e osservano, mantenendo l’impegno all’omertà e agli accordi corruttivi, al fine di attuare un saccheggio di risorse pubbliche».

In che cosa invece è cambiata?

«Ai tempi di Mani Pulite erano i principali partiti politici a giocare questa funzione di regolazione tramite il finanziamento illecito, che era il prezzo che tutti i partecipanti al gioco pagavano ai partiti, cioè a strutture organizzate, per entrare nella spartizione riservata a pochi delle risorse pubbliche. In anni recenti, venuta meno la forza organizzativa dei partiti, altri attori, di volta in volta diversi (il vertice di un consorzio di imprese, associazioni mafiose autoctone, faccendieri), sono subentrati: non più in una singola cabina di regia che faceva perno sulle segreterie dei vari partiti, ma in un sistema policentrico, in cui assume importanza il cosiddetto faccendiere che connette i singoli rami».

È esatto immaginare la corruzione di allora come un albero ramificato da grandi tronchi e quella di ora come tante piantine?

«In qualche modo sì. Questo spiega perché non capita più, come avvenne con Mani pulite, che un’inchiesta partendo da una piccola tangente per l’appalto all’impresa di pulizie di una casa di riposo, come allora il Pio Albergo Trivulzio, arrivi al cuore del sistema. Anche quando la magistratura risale i meccanismi di livello occulto può arrivare solo a un livello locale. Questo dà l’idea di una corruzione più disorganizzata, mentre prima, almeno per gli appalti di un certo spessore, si pagavano tangenti a Roma per essere sicuri che ovunque si facessero affari il sistema avrebbe avuto regole comuni».

Allora vedemmo emergere fisicamente dalle indagini bustarelle sottobanco, valigette di contanti, persino lingotti nel divano, ora molto meno. Perché?

«Vero e non è un buon segno. Significa che i protagonisti del gioco della corruzione si sono fatti meno ingenui: oggi si scambiano non solo le cosiddette utilità, favori non in moneta sonante, ma occultano il passaggio di denaro in attività all’apparenza lecite. Invece di dare al destinatario della tangente una valigia di soldi, si assume un un suo parente per un lavoro che in realtà non fa ma per cui regolarmente lo si paga, si fa un contratto di consulenza a una società fittizia intestata a un suo prestanome, si fanno fatture false per consulenze mai avvenute. Tangenti “pulite e fatturate” difficili da individuare da parte della magistratura».

Che cosa in questi 25 anni ha ostacolato un vero cambiamento?

«Per almeno un ventennio, la politica è intervenuta con norme ad hoc per migliorare l’aspettativa di impunità, cui solo negli ultimi anni si sta cercando faticosamente di rimediare con il ripristino delle norme sul falso in bilancio, con l’istituzione dell’Autorità anticorruzione (Anac), ma siamo ancora carenti sulla prescrizione, dimezzata nel 2005 dalla cosiddetta legge ex Cirielli, e ritenuta dagli indicatori internazionali un nostro fattore di inefficacia nella respressione dei crimini dei colletti bianchi».

I cittadini vedono la corruzione come un fatto di “casta”. Esiste anche più vicino a noi?

«La corruzione non investe solo i grandi appalti, ce n’è anche una spicciola che fatichiamo a riconoscere: è nella pratica della piccola tangente quotidiana, nel regalo che sappiamo di dover fare perché qualcuno si prodighi a procurarci un posto in una corsia affollata, nella mancetta allungata all’usciere perché acceleri il passaggio di una pratica da un ufficio all’altro. Diritti che diventano favori. Si pensi che un sondaggio del Global barometer of corruption dell’ottobre 2016 indica che il 7% degli italiani, significa qualche milione di persone, avrebbe avuto nell’ultimo anno la richiesta di una tangente».

Questione anche di cultura?

«Sì anche, ma non vorrei che la dimensione culturale diventasse un alibi per arrendersi al “familismo amorale”, perché non è che ci sia in noi un dna che ci renda predisposti alla corruzione. Dipende anche da noi contrastarla rispettando le regole nel quotidiano degli ambienti che frequentiamo. Ne è prova il fatto che, in contesti simili, c’è chi rispetta le regole e chi non lo fa, chi giustifica l’assenteismo e la corruzione e chi le denuncia prendendosi dei rischi. Questo significa che in alcune realtà si sono affermati meccanismi virtuosi e in altre no, e che questo dipende anche molto dalle persone».

Quanto ci costa la corruzione?

«Difficile quantificare in cifre. Alla lunga il fardello insostenibile si vede nell’affievolirsi dei diritti dei cittadini: salute, istruzione, garanzie di accesso alle opportunità del mondo del lavoro su basi meritocratiche. Se la selezione del personale amministrativo, della classe dirigente, dell’amministrazione delle imprese si fa con criteri di parentela, familiarità, disponibilità a stare al gioco, alla fine ne va della capacità di un Paese di innovare, di coltivare i propri talenti. Si perde in crescita economica, perché si fanno fuggire persone capaci, non ricattabili, a vantaggio di altre che “devono rendere favori” ma non hanno le competenze necessarie per il ruolo che ricoprono. E si perde in crescita civile perché, quando prevalgono meccanismi antimeritocratici, i cittadini perdono fiducia nel fatto che una comunità organizzata possa dare risposta alle loro esigenze e ai loro diritti».

La corruzione aumenta controlli e burocrazia, i controlli rallentano i meccanismi e creano occasione di nuove corruzioni. Come se ne esce?

«Cambiando la natura dei controlli: in Italia abbiamo molto controllo burocratico sull’adempimento delle regole formali, del rispetto delle procedure, ma poi non si va a verificare se la procedura di appalto svolta formalmente con tutti i crismi abbia prodotto un’opera utile, nei tempi previsti, nei costi previsti. Ma questo richiederebbe alla Pa competenze di natura tecnica non solo giuridica se no si ritorna al controllo sull’adempimento».

Prevenzione/repressione, dove va la direzione giusta?

«Non sono strumenti alternativi, ma complementari: l’efficacia degli uni non può prescindere dalla credibilità degli altri. Sono dimensioni diverse, delegate a soggetti diversi, con prospettive temporali diverse. Gli effetti della repressione si possono vedere subito: si scoperchia un contesto di malaffare, lo si persegue e si dà il segnale della reazione dell’ordinamento, è il caso di Mani pulite. La prevenzione, invece, in Italia ha una storia recente: è il pilastro della legge Severino del 2012, ma purtroppo agisce quasi solo nell’ammnistrazione pubblica, la politica è la grande assente dall’attività di prevenzione. Gli effetti di questa azione non potranno però che manifestarsi a distanza di tempo, attraverso la maturazione di strumenti come codici di condotta, attività di formazione, volti a creare un terreno di coltura per un diverso approccio alla vita e alla pratica amministrativa più orientati ai valori di trasparenza».

C’è speranza?

«Deve esserci, ma occorre essere consapevoli che si tratta di una speranza paziente e tenace, che richiede l’impegno di tutti al rispetto delle regole e che non può risolversi nelle manifestazioni di piazza, stile Romania, e neanche nella speranza generica che basti un’indagine giudiziaria come Mani pulite a compiere un improvviso rinnovamento».